17/5 Italia-Ue. Fondi europei: quanti sono e come li spendiamo (e quanto paghiamo)

17/5 Italia-Ue. Fondi europei: quanti sono e come li spendiamo (e quanto paghiamo)

Quanti soldi arrivano da Bruxelles in Italia? A cosa servono e come vengono impiegati? È più quello che riceviamo o quello che versiamo? Avere un ordine di grandezza e orientarsi nelle diverse forme di finanziamento europeo può servire a dare concretezza all’Europa e a sfatare alcuni dei luoghi comuni più diffusi.

Il compito di garantire che tutti i fondi del bilancio della Ue siano spesi correttamente spetta alla Commissione Europea, ma anche i governi nazionali sono responsabili di eseguire controlli e verifiche annuali: questo perché l’80% dei fondi Ue è gestito a livello nazionale. Quindi una corresponsabilità che porta a condividere fra Bruxelles e le capitali oneri e onori.

Molto difficile avere una cifra esatta dei finanziamenti che, distribuiti trasversalmente a tutta l’Unione Europea, giungono in Italia. Un bilancio su base nazionale, per periodo 2014 – 2020, si può avere solo per i Fondi strutturali e di investimento europei (SIE). Sono i cosiddetti finanziamenti indiretti, gestiti congiuntamente dalla Commissione Europea e dai Paesi Ue. All’Italia dal 2014 al 2020 sono stati destinati 75 miliardi e 164 milioni di euro, di cui 44 miliardi e 656 milioni tratti dal bilancio della Ue, mentre i restanti 30 miliardi e 508 milioni sono presi dal bilancio italiano come forma di cofinanziamento ma non entrano nel bilancio Ue.

I finanziamenti indiretti della Commissione Europea a tutta l’Unione – dal 2014 al 2020 – sono pari a 576 miliardi di euro così suddivisi: 70 miliardi di euro per il Fondo sociale europeo (sostenere l’occupazione e assicurare opportunità lavorative più eque); 351,8 miliardi di euro al Fondo europeo di sviluppo regionale e al Fondo di coesione, con l’obiettivo di rafforzare la crescita e promuovere lo sviluppo delle regioni più in ritardo; quasi 22 miliardi di euro sono destinati al fondo Connecting Europe Facility, creato per sviluppare le infrastrutture nel settore dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni; oltre 100 miliardi di euro sono destinati al Fondo europeo agricolo di garanzia per sostenere l’innovazione in agricoltura e nell’industria agroalimentare e affrontare le sfide della qualità del suolo e del cambiamento climatico; il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale sostiene invece, in modo particolare, lo sviluppo delle aree rurali e dispone di 95 miliardi di euro; infine al Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca, a sostegno delle risorse marine, sono destinati 6,5 miliardi di euro.

E quanto versa l’Italia a Bruxelles? A Bruxelles vanno i circa 14 miliardi e 500 milioni di euro versati nel 2014 e nel 2015 i 13 miliardi e 900 milioni di euro versati nel 2016, i 12 miliardi di euro versati nel 2017 dall’Italia al bilancio Ue: in tutto 55 miliardi e 226 milioni di euro a cui si devono aggiungere altri tre anni di bilancio mancanti al 2020. Si può stimare che siano altri 41 miliardi di euro, per un totale di 96 miliardi di euro che Roma versa a Bruxelles.

Un saldo negativo, sempre in base ai dati ufficiali della Ue, che varia di anno in anno: 4.825 milioni di euro nel 2014; 3.274 milioni di euro nel 2015; 2.336 milioni di euro nel 2016; 3.557 milioni di euro nel 2017. Ma altri soldi arrivano in Italia – come agli altri Paesi Ue – grazie ai finanziamenti diretti della Ue. Oltre ai finanziamenti europei indiretti, vi sono infatti quelli diretti erogati dalla Commissione europea con lo scopo di sostenere le eccellenze e i migliori progetti. Sono sempre finanziamenti a fondo perduto, ma a gestione diretta della Commissione Europea per tutta l’Unione e che, fra i criteri di assegnazione a un progetto, prevede pure quello del bilanciamento geografico. Comunque un importante flusso di finanziamenti – oltre 102 miliardi di euro i finanziamenti diretti dal 2014 al 2020 – a cui anche l’Italia ha accesso: 80 miliardi di euro sono destinati al programma Horizon destinato alla ricerca e all’innovazione (eccellenza scientifica, leadership industriale e sfide della società); il programma Erasmus+ per l’istruzione riceve in tutto 14,7 miliardi di euro; il programma Creative Europe, a cui sono assegnati 1,46 miliardi di euro, sostiene il settore culturale e audiovisivo; 2,3 miliardi di euro sono destinati alla Piccole e Medie Imprese nel programma COSME; per l’ambiente, con il programma LIFE, sono destinati 3,5 miliardi di euro; 919 milioni di euro sono, infine, destinati alle Piccole e medie imprese con il programma EaSl.

Infine, il Piano di investimenti per l’Europa – il cosiddetto Piano Juncker presentato nel novembre del 2014 – non ha bandi né prevede finanziamenti a fondo perduto, ma ha lo scopo di mobilitare investimenti favorendo l’incontro tra progetti e investitori. Si tratta di una garanzia basata sul bilancio Ue che fornisce alla Banca europea una protezione dalle perdite e quindi può finanziare progetti a più alto rischio di quanto farebbe normalmente. Sino ad oggi, in tutta la Ue, il piano Juncker ha mobilitato circa 380 miliardi di investimenti, con l’obiettivo di arrivare a 500 miliardi entro il 2020. Il totale dei finanziamenti in Italia è pari a 9,6 miliardi di euro che dovrebbero mobilitarne altri 57 di investimenti aggiuntivi. Un deficit tra i contributi italiani versati nel bilancio Ue e quelli indiretti che si aggira comunque sempre tra i 2 e 4 miliardi di euro l’anno che, anche accettando di essere il più possibile competitivi sulla gestione dei fondi diretti, non può essere ripianato. Un ‘do ut des’ in passivo ma che non tiene conto anche di altre variabili che vanno considerate. La prima, che ormai si tende a dare per scontata, è la libera circolazione delle merci e dei servizi che apre le porte al più grande mercato mondiale. Un accesso che va raggiunto abbattendo barriere culturali e linguistiche, oltre che strettamente quelle di capacità di impresa. Questo si traduce in una più ampia possibilità di scelta come consumatori e, soprattutto per le più giovani generazioni, nella possibilità di studiare e lavorare in tutti i Paesi Ue, in uno spazio Schengen ancora da sfruttare in tutta la sua estensione. Infine, favorire per il principio di solidarietà lo sviluppo di Paesi più poveri, specialmente nell’Europa dell’Est, significa comunque avere un mercato di consumatori per il made in Italy. Una partita economica e politica troppo complessa per essere liquidata con una semplice sottrazione fra entrate e uscite.

fonte: Avvenire – Luca Geronico